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Gay Pride: se vogliamo la “normalità”, non trasformiamolo in un Carnevale

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- (presupposto culturale) Colori, musica e sentimenti.
Per molti giorni a Roma le suggestioni di EuroPride 2011 hanno riempito Piazza Vittorio, la casa madre della manifestazione, e poi, in un modo o nell’altro, molti altri luoghi della città. EuroPride è la grande festa manifestazione europea “gay, lesbian, bisexual, transgender, intersex” che ricorda al mondo il diritto di avere tutti gli stessi diritti, e di essere tutti, allo stesso modo, individui agenti di un’unica identità, l’identità umana.
Il superamento della discriminazione sessuale è assunto ineludibile per l’affermazione della libertà dell’uomo
, ed il percorso, non ancora terminato ahimé, per il pieno raggiungimento di eguali diritti a prescindere dalle attitudini sessuali, è stato puntellato da drammi e feroci ingiustizie che ancora oggi colorano di assurdo il mondo. Fino agli anni ottanta l’Organizzazione Mondiale della Sanità considerava l’omosessualità in quanto “malattia psichica”. Questo, ed altri abominevoli paradossi, sono stati superati, ma ancora molto è da fare. In Italia, in Europa, nel Mondo.

Siamo assolutamente (e lo dovremmo essere tutti) d’accordo sul fatto che l’omofobia vada estirpata dalle leggi, dall’immaginario, dai mood, dalle culture residuali. Chi, oltretutto, si è occupato di psicologia dinamica parte, giustamente, dall’assunto per il quale la sessualità nell’inconscio di ognuno di noi compie, potenzialmente, tutte le possibili equazioni di sviluppo. Potenzialmente siamo tutti sia etero, sia omosessuali, quant’ altro. E ciò che è potenziale, è già atto.

E quindi, ben contenti, abbiamo visto, guardato e partecipato alle iniziative (pride park, eventi, pride, contest) di Euro Pride. Lo abbiamo fatto con amici omosessuali, eterosessuali (e via dicendo) e non parlandoci di dove vorremmo infilare la nostra lingua, ma piuttosto dei problemi quotidiani… uguali per tutti.

Poi, sabato, la Big Parade. La grande parata dell’orgoglio omosex che ha festosamente invaso le vie della città. Dalle finestre e dai balconi pure le vecchiette salutavano. Gente da tutte le nazioni, di tutte le generazioni, delle più varie e disparate tendenze sessuali, tutti insieme… siamo umani… liberi.

A sfilare pure la politica. C’era la sinistra, e poi c’era anche la destra liberale. Come ha scritto in un post l’amico Piercamillo Falasca

Al nostro passaggio, con lo striscione di GayLib e le bandiere di FLI, ricevevamo applausi e incoraggiamenti dalla folla dell’Europride. Abbiamo mostrato alla comunità gay che c’è una destra votabile. E abbiamo lanciato un messaggio alla stessa FLI: non abbia paura di essere una destra diversa.”

Fin qui tutto bene, noi siamo etero, o perlomeno lo siamo consciamente… poi laggiù… nel profondo… vai a capì cosa succede. I nostri amici hanno altri gusti sessuali. E noi lottiamo tutti insieme per essere liberi di avere gli stessi diritti.

(analisi)

Nel corteo di Euro Pride, tra i tanti straight (gay indistinguibili dagli etero, vestiti come chiunque, quando al mattino si veste) ho visto una moltitudine di drag queen, macho in mutande di pizzo, maschi in kilt di latex, canotte traforate, donne travestite da uomini con baffi finti, uomini travestiti da prete con fantocci di bambino attaccati alla zona pelvica, gruppi denominati “motociclisti gay”, gruppi di lesbiche vestite da uomo in quadrato militare che se ne guardi una perché ti piace le altre ti puntano male, ventenni vestiti da adolescenti dell’immaginario fotografico omosessuale francese degli anni venti, uomini travestiti da “bambino morso dal ramarro” del caravaggio, un qualche centinaio di uomini e donne travestiti da Raffaella Carrà o da Village People, falli di silicone, uomini vestiti da putti barocchi (o forse erano angeli) e così via.

Ecco.
A mio parere tutto ciò – fatto salvo che ognuno è libero di raccontarsi come gli pare – dal punto di vista della veicolazione simbolica è un errore strategico, ed anche una simulazione di una limitatezza identitaria, che in realtà non ha ragion d’essere, e, soprattutto, non c’è.

Nell’autorappresentazione della grande festa, parade, omosessuale si è codificato, da anni, un codice che potremmo definire a cavallo tra il grottesco e le logiche del carnevale medioevale. Questo è un classico stilema della comunicazione antropologica. Si comunica la propria identità capovolgendo le forme ideologiche dell’autorappresentazione sociale. Ci si mette in maschera. Ed attraverso di essa si simula il ribaltamento, e cioè, l’incoscio che prende il posto della, deludente, realtà quotidiana. E’ un rito liberatorio.

Ma se tutto ciò diventa un cliché, può diventare problematico.
Non vorrei che l’essere omosessuale, a furia di autorappresentarsi così (per gioco e per ironia, ovviamente), venisse confuso solo ed esclusivamente con il desiderio di compiersi nei linguaggi del grottesco.

Non vorrei che così facendo si induca a dimenticare che gli omosessuali possono essere sì creativi, eccentrici, ma possono essere (e così sono nella stragrande maggioranza dei casi)  persone che si vestono come chiunque altro, che per andare in ufficio non mettono il rimmel, che indossano le divise della polizia senza i tacchi alti, e che se mettono in tacchi otto … magari son lesbiche.

Il mio timore è che la codifica di una identità forzosamente ed a tutti i costi eccentrica finisse per essere compiuta, a livello di immaginario sociale, come alterità. E invece bisogna, appunto, sconfiggere a morte le logiche dell’alterità, perché esse sono l’esercizio ideologico primo di una società che tende al razzismo.

Vorrei vedere una Gay Parade con i medici in camice, i manager in camicia, gli studenti in jeans, gli operai in giubbetto, esattamente come in qualsiasi altra manifestazione che abbia come funzione l’attestazione del proprio diritto di essere sé stessi. Un Sé non da teatro plautesco o da rito pagano, ma un Sé verosimile, quotidiano, senza messe in scena esorcistiche di una realtà che non può essere messa in fuga né da maschere né da travestimenti. Non vorrei che l’omosessualità continuasse ad essere, come ahimè accade, recintata in una dimensione di “identità macchietta” o bozzettistica. Un mondo altro. Ecco, l’omosessualità troppo spesso viene narrata (ed autonarrata) come un mondo a sé. E questo vuol dire, inconsapevolmente, porsi al di fuori dalla strategia della “fusione” di un immaginario sociale, dove, nel migliore dei mondi, tutte le identità dovrebbero essere valorizzate come consustanza. Un corpo unico. Senza organi a sé, esterni.

Qualche anno fa venne premiato un bellissimo film di Ang Lee, si intitolava “Brokeback Mountain”.

Raccontava di una dolorosa storia d’amore, come tante altre, identica a tante altre. I protagonisti di questa storia d’amore erano due bei ragazzi, identici a tanti altri. Un film tematicamente rivoluzionario. L’omosessualità raccontata in quanto normalità. Ecco la narrazione che bisogna spingere. Siamo tutti normali, diversissimi dentro l’un l’altro, quindi tutti normali. Non c’è bisogno di maschere e travestimenti a tutti i costi, per retorica. Quelle sono armi per i mostri … i nemici della nostra normalità.

Poi… beninteso… viva le drag e viva i kilt di lattex e viva le parrucche bionde da angelo … se servono al buonumore.


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